Il valore di offrire cure palliative alla società di oggi

30° Anniversario di ANTEA

Le cure palliative un diritto da garantire. Scuola Ufficiali dell’Arma dei Carabinieri

Questa giornata celebrativa del 30 anniversario della fondazione ANTEA – un grande traguardo! – ci dà l’opportunità di esprimere la nostra profonda gratitudine a coloro che ogni giorno collaborano per realizzare la realtà di Antea, di assaporare i frutti di molto lavoro e sognare un futuro ancora più ricco di servizio e di sollievo della sofferenza di quanti, attraverso il percorso di una grave malattia, muovono il passo verso il termine della loro vita.

Nell’articolazione di questa giornata a me tocca proporre qualche spunto di riflessione sul “valore di offrire cure palliative alla società di oggi”. Si tratta, in fondo, di dare una lettura etico-culturale di una nobilissima attività che poi, gli eroi quotidiani delle cure palliative qui presenti, ci mostreranno nell’attuazione concreta.

Il valore umano e sociale del prendersi cura

Il punto davvero essenziale che vorrei sottolineare riguarda il “debito” che ciascuna società – quella civica, così come quella declinata professionalmente – ha nei confronti delle cure palliative in relazione alla “riscoperta”, oggi, di una dinamica umana fondamentale – e per questo irrinunciabile: il “prendersi cura” gli uni degli altri. Una dinamica che proprio perché “fondamentale”, appartiene in maniera radicale ad ogni essere umano e rappresenta una conditio sine qua non per la realizzazione umana e personale di ciascuno di noi, nessuno escluso; una dinamica, pertanto, al di fuori della quale non può esservi sviluppo umano integrale né felicità personale, per alcuno.

Il prendersi cura che sta alla base di ogni vivere sociale, ristretto o allargato che sia, è anche un valore che ciascuno di noi è chiamato a coltivare fino a farne una disposizione virtuosa, un agire eccellente. Parole probabilmente superflue in questo contesto, dal momento che per voi professionisti sanitari il “prendersi cura” non è solo una dinamica umana ordinaria, ma l’origine di una vocazione professionale e il modello di uno stile di vita.

E a me piace legare il vostro lavoro all’immagine evangelica del Buon Samaritano. Nel Samaritano vedo l’ispirazione più chiara del prendersi cura dell’altro ridotto in fin di vita. E’ centrale la “compassione” evangelica che questo “straniero” ha avuto verso quell’altro “straniero”: “ne ebbe compassione”, scrive l’evangelista. Per questo si fermò, gli diede le prime cure, poi lo prese sulla sua cavalcatura, lo portò all’albergo e lo affidò all’albergatore dicendogli che sarebbe tornato e avrebbe continuato ad interessarsi si lui. Quel Samaritano “si prese cura” di quell’uomo mezzo morto. Non sappiamo come sia terminata la vicenda personale di quell’uomo mezzo morto. Ma certo non fu più solo, non fu più abbandonato. E gli fu ridata così la sua dignità di essere un fratello della famiglia umana. Se mi è permesso dire: è questa la vera e più profonda guarigione.

Certo, sappiamo che oggi la prospettiva della “guarigione”, gioca un ruolo preponderante nella medicina contemporanea. Ma va evitato il rischio che sia l’unico obiettivo da ottenere a qualsiasi costo, dimenticando cioè il limite radicale che fa parte della nostra esistenza. L’illusione della immortalità che fa da sfondo all’unico obiettivo della guarigione è pericolosissima. La radicale finitudine umana porta ad escludere con decisione il cosiddetto “accanimento terapeutico” che infliggerebbe sofferenze inutili oltre che dannose al paziente. Mai bisogna perciò abbandonare il malato, anche quando viene meno la possibilità di guarigione. Quando non si può fare più nulla per guarire non è vero che non si può fare più nulla. Si deve accompagnare, sollevare dalla sofferenza, aiutare a vivere tutto il tempo della debolezza con amore. Questa è dignità. E non è poco. Nessuno viene mai scartato. Così direbbe Papa Francesco.

La medicina, nonostante i notevolissimi progressi tecno-scientifici, non sempre può guarire, quasi sempre può ottenere un buon controllo dei sintomi e certamente può sempre prendersi cura del paziente nei suoi bisogni fondamentali, sia di natura corporeo-fisiologica (l’alimentazione, l’igiene, la mobilizzazione, etc.), sia di natura psicologica, relazionale, spirituale. La medicina, se può “fallire” nell’ottenere la guarigione, non fallisce mai nel prendersi cura del malato. Ecco perché, nonostante i notevoli e continui progressi tecno-scientifici, l’ambito, forse unico, in cui si ha la certezza di conseguire sempre l’obiettivo è quello del prendersi cura della persona malata. E, purtroppo, questo spesso è l’aspetto più trascurato e a volte persino ignorato della medicina. Voi sapete quanto l’esperienza clinica, didattica, il confronto con l’esperienza di altri colleghi a livello nazionale e internazionale, confermi che pochi studenti sia di medicina sia dei corsi infermieristici, sono intenzionati a dedicarsi alla cura della persona terminale e soprattutto delle persone anziane, considerandolo tutto ciò poco gratificante rispetto ad altri ambiti della medicina. In realtà, per secoli proprio il prendersi cura ha costituito l’identità propria della professione medica.

Il “prendersi cura”, nel contesto della professione medica, ha pertanto bisogno di un ulteriore scatto culturale: ossia di tenere sempre conto, nel suo agire, delle esigenze della dignità della persona umana in ogni momento della sua vita. Tale rispetto esige: il rispetto incondizionato (vuol dire sempre, in ogni circostanza) della vita umana, al di là di qualunque deriva utilitaristica (oggi una forte tentazione); l’attenzione alla persona malata nella sua globalità, non solo alla dimensione fisico-corporea (come una medicina altamente scientifica, ma scarsamente umanizzata potrebbe rischiare di fare), ma anche a quella esistenziale, che si manifesta nel bisogno di relazioni umane concrete, di accompagnamento, di significato della vita, di senso della sofferenza e della stessa morte che si avvicina.

Focus su alcune questioni di fine vita

Una riflessione vorrei ora offrirla a proposito del diritto a “morire con dignità”, divenuto un aspetto centrale nella cultura contemporanea. E’ un diritto sacrosanto che peraltro si deve estendere a tutto l’arco della esistenza umana, dall’inizio alla fine e in tutte le condizioni nelle quali una persona si trova a vivere. Parlare di dignità del morire significa pertanto  promuovere una nuova cultura dell’intera vita umana e delle sue relazioni.

Oggi si muore spesso in solitudine, senza nessuno accanto. È il segno di un profondo cambiamento – di imbarbarimento, direi – di una cultura che passa dalla richiesta di “pietà per chi muore” a quella di volere la “morte per pietà”. Nella società contemporanea l’uomo è rimasto solo, soprattutto quando ha più bisogno di aiuto, come appunto nel momento della morte. Ma la solitudine – lo sappiamo tutti per esperienza diretta – è sempre brutta. E nei momenti di debolezza o di malattia grave, lo è ancora di più. E’ facile preferire la morte al soffrire da soli. La richiesta di eutanasia molte volte parte proprio da qui. Mi chiedo: è proprio una dimensione di dignità mettere una pillola mortale sul comodino a disposizione del moribondo? Ed è ben triste quella società che consacra la scelta eutanasica, sino a ritenerla un’ideale di morte a cui guardare. Ben altra cultura è quella che spinge a continuare ad aiutare il malato nel momento in cui la morte si approssima. Insomma, una cosa è aiutare a morire e altra cosa farlo morire. La vera dignità è quella che prova la persona fragile, malata, quando viene curata con delicatezza, tatto e accompagnata con affetto e generosa attenzione.

Nella fede cristiana – ma anche in altre culture – l’uomo è per sua natura un essere relazionale. E quindi la dipendenza – o meglio la sua radicale interdipendenza – è un valore. L’alterità non è il limite con cui l’uomo deve scontrarsi, la minaccia da cui deve difendersi, ma il suo intimo punto di forza, la sua migliore possibilità. Nella debolezza si scopre che l’aiuto altrui (la tanto temuta “dipendenza”) possiede una grande forza. Non solo supplisce alle debolezze fisiche e ai naturali limiti imposti dalle invalidità del corpo, ma conserva e spesso restaura capacità cognitive, mnemoniche e relazionali in modo molto potente. Innumerevoli studi epidemiologici mostrano come le necessità assistenziali, la qualità della vita e le riserve funzionali fisiche e mentali siano significativamente e direttamente correlate alla grandezza e alla qualità della rete di rapporti umani e sociali.

Le cure palliative hanno il merito di accompagnare verso un’effettiva “buona morte” vincendo la paura di una sofferenza insopportabile e vissuta in solitudine. Purtroppo ancora non c’è un’adeguata conoscenza e neppure un adeguato impegno per far conoscere e quindi praticare le cure palliative. Lo scarso impulso dato a questa prospettiva facilita la triste altalena tra accanimento e abbandono terapeutico.

Un limite culturale, che affligge anche alcuni sanitari che si occupano di medicina palliativa, è quello di pensare che, di fronte a esplicita richiesta del paziente o a situazioni drammatiche di sofferenza, la scelta di abbreviare la vita di una persona possa far parte dell’armamentario delle soluzioni adottabili: ciò non solo stravolge la definizione stessa di cure palliative, ma anche il senso profondo di questo approccio al malato e, in ultima analisi, il senso di tutta la medicina. Dal punto di vista medico, è fondamentale il criterio della “proporzionalità delle cure”. Ciò ammette l’astensione dalle terapie, quando queste non siano più adeguate da un punto di vista dell’indicazione medica. Ciò però non deve essere confuso con forme di eutanasia omissiva. Non ogni astensione di cure è di per sé eticamente appropriata, neanche per il fatto che ci si trovi di fronte ad un paziente con infermità avanzata e persino terminale. Soprattutto, anche qualora le terapie attive si rivelassero oramai inefficaci o sproporzionate, si dovrà comunque sempre continuare a prendersi cura del malato, attraverso l’adeguata palliazione dei sintomi e l’attenzione alla sua persona e a i suoi bisogni attraverso la cura della nutrizione, dell’idratazione e dell’igiene.

Il malato deve restare vivo fino alla morte, e non morire socialmente prima che biologicamente.

Il Progetto PAL-LIFE

Permettetemi ora di spendere una parola per il Progetto PAL-LIFE della Pontificia Accademia per la Vita, dedicato al tema delle cure palliative.

Nel corso dell’Udienza concessa ai partecipanti alla XXII Assemblea Generale della Pontificia Accademia per la Vita, nel cui contesto veniva organizzato il Workshop “Assisting the Elderly and Palliative Care”, il Santo Padre Papa Francesco ci rivolgeva le seguenti parole: “Apprezzo pertanto il vostro impegno scientifico e culturale per assicurare che le cure palliative possano giungere a tutti coloro che ne hanno bisogno. Incoraggio i professionisti e gli studenti a specializzarsi in questo tipo di assistenza che non possiede meno valore per il fatto che “non salva la vita”. Le cure palliative realizzano qualcosa di altrettanto importante: valorizzano la persona. Esorto tutti coloro che, a diverso titolo, sono impegnati nel campo delle cure palliative, a praticare questo impegno conservando integro lo spirito di servizio e ricordando che ogni conoscenza medica è davvero scienza, nel suo significato più nobile, solo se si pone come ausilio in vista del bene dell’uomo, un bene che non si raggiunge mai “contro” la sua vita e la sua dignità. E’ questa capacità di servizio alla vita e alla dignità della persona malata, anche quando anziana, che misura il vero progresso della medicina e della società tutta. Ripeto l’appello di san Giovanni Paolo II: «Rispetta, difendi, ama e servi la vita, ogni vita umana! Solo su questa strada troverai giustizia, sviluppo, libertà vera, pace e felicità!»”

Desiderando dare seguito alle parole del Santo Padre, nel marzo 2017, la Pontificia Accademia per la Vita avvia il Progetto PAL-LIFE, istituendo un Gruppo di Studio consultivo, internazionale, che possa supportarla nelle iniziative a favore dello sviluppo e diffusione delle cure palliative nel mondo e della promozione di una cultura e attitudini di accoglienza della morte e cura del morente. Attraverso tale Progetto l’Accademia auspica di:

– promuovere una maggiore sensibilità delle realtà ecclesiali sulla necessità di sviluppare buone cure palliative nelle diverse aree del mondo;

– stimolare l’attenzione delle realtà sociali e culturali extra-ecclesiali sulla realtà delle cure palliative;

– porsi come interlocutore delle istituzioni accademiche e delle realtà scientifiche, nella promozione delle cure palliative nel mondo

– promuovere, ai diversi livelli, il dialogo e la cooperazione tra i diversi stakeholder nella realizzazione di progetti concreti di cure palliative.

Da marzo ad oggi, sono già state realizzate diverse attività nell’ambito del progetto PAL-LIFE. Tra queste spiccano:

– la cooperazione, patrocinata dalla Pontificia Accademia per la Vita, tra l’Associazione “Pallium India” (attualmente diretta dal Dr. Rajagopal) e la Catholic Health Association of India per la concreta implementazione delle cure palliative in tutte le strutture assistenziali cattoliche dell’India;

– una linea di studio e approfondimento della cura spirituale nella pratica delle cure palliative, guidata da Christina Puchalski;

– attività di promozione e advocacy delle cure palliative presso gli organismi internazionali, in particolare l’ONU, lavorando a stretto contatto, su questo punto, con Liliana De Lima e Katherine Pettus della International Association of Hospice and Palliative Care;

– un “White Paper for global palliative care advocacy”, a cui sta lavorando l’intero nostro Gruppo di esperti e che sarà ufficialmente presentato nel congresso del prossimo febbraio.

Il 28 febbraio e il 1° marzo prossimi celebreremo, infatti, a Roma il primo congresso internazionale del Progetto PAL-LIFE. Il titolo dell’evento è: “PALLIATIVE CARE: EVERYWHERE & by EVERYONE. PC in every region. PC in every religion or belief”. Si esploreranno temi come: il valore delle cure palliative per la medicina, l’assistenza sanitaeia e la società; la diffusione e i modelli di cure palliative nel mondo; il contributo delle differenti fedi religiose e della cura spirituale nell’accompagnamento al morente; le implicazione politiche ed economiche della diffusione e implementazione delle cure palliative.