Curare e prendersi cura del paziente nel fine vita

L’argomento della fine della vita ci mette sempre di fronte a una situazione delicata e suscita un certo imbarazzo. La morte è un evento difficile da trattare perché ha qualcosa di inafferrabile: non riusciamo a definirla in modo soddisfacente e lascia sempre un’eccedenza indecifrabile. Anche se possiamo stabilire dei criteri per diagnosticarla, tuttavia ci rendiamo conto che la dimensione organica non esaurisce la profondità dell’evento che essa costituisce. Forse non è un caso che anche sui criteri biomedici, come del resto sul piano giuridico, non è scontato né immediato giungere a un accordo universalmente condiviso.

Se collochiamo il nostro tema all’interno dell’evoluzione della medicina ci rendiamo conto che alcuni cambiamenti importanti si sono realizzati nel modo di far fronte al morire: il primo riguarda l’efficacia crescente che la medicina ha acquisito con lo sviluppo della ricerca scientifica e tecnologica, il secondo gli equilibri della relazione medico-paziente. Nella mia relazione mi soffermerò soprattutto sul primo, poiché il secondo riguarda più da vicino i tema della relazione successiva alla mia (di p. Carlo).

  1. Crescente potere scientifico-tecnologico della medicina

 La medicina solo in epoca recente è arrivata a disporre di strumenti così incisivi ed efficaci da poter sconfiggere molte malattie e migliorare significativamente lo stato di salute. Ma questo sviluppo ha reso la guarigione quasi scopo principale, se non esclusivo, della medicina contemporanea. Questo atteggiamento teso alla guarigione ad ogni costo porta con sé il rischio di superare la ragionevolezza nell’uso dei trattamenti medici e di sfociare nel cosiddetto “accanimento terapeutico” che finisce per procurare al paziente sofferenze dovute a un impiego di mezzi, spesso invasivi, perdendo di vista il bene integrale della persona. Ovviamente va anche evitato il rischio dell’abbandono terapeutico nel momento in cui viene meno la possibilità di ottenere la guarigione. Se non possiamo guarire, possiamo però ancora alleviare il dolore e la sofferenza e continuare a prenderci cura di quella persona. Insomma, il paziente inguaribile non è mai incurabile.

Il “prendersi cura” di chi è debole e malato non fa parte delle scelte da fare o meno, è un’esigenza intrinseca alla nostra stessa umanità; la scelta del “prendersi cura”, anziché quella dell’abbandono è un’attitudine irrinunciabile per un vero progresso del genere umano. E’ proprio in questa capacità di servizio alla persona umana, in particolare quando malata o anziana, che si misura il vero progresso della società. Papa Francesco nel suo messaggio al Congresso sulle cure palliative del febbraio di questo anno affermava che le cure palliative aiutano a riscoprire la vocazione più profonda della medicina che consiste prima di tutto nel prendersi cura. Scrive il Papa: “il compito (della medicina) è di curare sempre, anche se non sempre si può guarire. Certamente l’impresa medica si basa sull’impegno instancabile di acquisire nuove conoscenze e di sconfiggere un numero sempre maggiore di malattie. Ma le cure palliative introducono all’interno della pratica clinica la consapevolezza che il limite richiede non solo di essere combattuto e spostato, ma anche riconosciuto e accettato. E questo significa non abbandonare le persone malate, ma anzi stare loro vicino e accompagnarle nella difficile prova che si fa presente alla conclusione della vita. Quando tutte le risorse del “fare” sembrano esaurite, proprio allora emerge l’aspetto più importante nelle relazioni umane che è quello dell’“essere”: essere presenti, essere vicini, essere accoglienti. Questo comporta anche di condividere l’impotenza di chi giunge al punto estremo della vita. Diventando solidali nel momento in cui l’azione non riesce più a incidere nel corso degli eventi, il limite può cambiare di segno: non più luogo di separazione e di solitudine, ma occasione di incontro e di comunione”.

Papa Francesco aggiunge: “Cogliere nella propria esperienza come la vita umana sia ricevuta dagli altri che ci hanno messo al mondo e si sia sviluppata grazie alla loro cura, conduce a comprendere più profondamente il senso della dimensione passiva che la caratterizza. Appare allora ragionevole gettare un ponte tra quella cura che si è ricevuta fin dall’inizio della vita e che le ha consentito di dispiegarsi in tutto l’arco del suo svolgersi, e la cura da prestare responsabilmente agli altri, nel susseguirsi delle generazioni fino ad abbracciare l’intera famiglia umana. Per questa via può accendersi la scintilla che collega l’esperienza dell’amorevole condivisione della vita umana, fino al suo misterioso congedo, con l’annuncio evangelico che vede tutti come figli dello stesso Padre e riconosce in ciascuno la Sua immagine inviolabile. Il mistero santo di questo legame sta a presidio di una dignità che non cessa di vivere: neppure con la perdita della salute, del ruolo sociale e del controllo sul proprio corpo. Ecco allora che le cure palliative mostrano il loro valore non solo per la pratica medica – perché anche quando agisce con efficacia realizzando guarigioni talvolta spettacolari, non si dimentichi di questo atteggiamento di fondo che sta alla radice di ogni relazione di cura –, ma anche più in generale per l’intera convivenza umana”.

  1. Cure palliative : non solo terapia del dolore

La Pontificia Accademia per la Vita ha preso l’impegno perché tutto ciò possa avvenire a livello della Chiesa Cattolica ovunque nel mondo. Abbiamo già realizzato un Congresso Internazionale nel febbraio di questo anno con la partecipazione di esperti provenienti da 38 paesi; ne è in programma un altro a Huston il prossimo settembre per il Nord America, un altro in Spagna a metà novembre e sono in programmazione uno per l’America Latina e un altro per i Paesi Arabi. Nel frattempo pensiamo di poter preparare qualche strumento informativo che possa essere inviato, attraverso le apposite Congregazioni Romane, alle università Cattoliche e agli Ospedali Cattolici nel mondo. E’ una frontiera particolarmente importante ed urgente da percorrere ovunque. Abbiamo la buona definizione proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità nel 2002 che le intende come «un approccio che migliora la qualità della vita dei pazienti e dei familiari che si trovano ad affrontare i problemi connessi ad una malattia che mette a rischio la vita» teso a raggiungere il risultato «attraverso la prevenzione e il sollievo della sofferenza per mezzo della precoce identificazione e del trattamento del dolore e degli altri problemi fisici, psicosociali e spirituali». La terapia del dolore perciò è solo una parte delle cure palliative che estendono la loro azione a tutti i sintomi fisici (nausea, vomito, astenia, dispnea, tosse, singhiozzo, prurito, stipsi solo per citare i più frequenti), psichici (depressione, ansia, insonnia, agitazione, attacchi di panico e altri), psicosociali (legati cioè alla situazione di isolamento sociale e di inattività forzata alla quale spesso sono costretti i pazienti) e spirituali. La definizione dell’OMS include non solo la malattia oncologica ma anche le altre patologie croniche degenerative, come la sclerosi laterale amiotrofica, la sclerosi multipla o il morbo di Parkinson nelle sue fasi più avanzate, quelle pneumologiche come le insufficienze respiratorie gravi o ancora a malattie cardiologiche nelle fasi finali dello scompenso cardiaco ed anche nefrologiche o metaboliche. Il campo è quindi potenzialmente molto vasto anche se, allo stato attuale, la gran parte dei pazienti seguiti sono oncologici e, in parte minore, neurologici.

Fa bene l’OMS a precisare che l’approccio palliativo è diretto a «paziente e  familiari» : il paziente non è una monade isolata ma un membro di un gruppo sociale con le grandi ricadute che questo comporta sotto molti punti di vista. Si precisa inoltre che l’obiettivo è quello di «affermare la vita e guardare alla morte come ad un processo normale», che non si intende quindi «né affrettare né ritardare la morte» offrendo ai pazienti «un sistema di supporto che li aiuti a vivere attivamente per quanto possibile fino alla fine», mediante un «approccio di équipe» che mira ad intervenire anche nelle fasi precoci della malattia e non esclude terapie o indagini diagnostiche che «mirino a comprendere meglio e a gestire le complicazioni cliniche». Un auspicio è che queste debbano rappresentare uno strumento importante per tutte le malattie cronico-degenerative con possibile esito infausto o con una cornice di sintomi che comunque cambiano negativamente la vita del malato, a prescindere dalla distanza dalla morte. È questo il concetto delle Simultaneous Care.

Come si può quindi facilmente evincere dalla lettura attenta della definizione dell’OMS, siamo ben lontani da molti luoghi comuni che offuscano una visione corretta della palliazione. Tra i luoghi comuni vi è ad esempio l’idea che questa medicina «low tech, high touch» sia un semplice «stare accanto» al malato senza che si richiedano anche mezzi o professionalità particolari. Non è così. Se in questa prospettiva medica è indispensabile una compassione umana, non si prescinde anche da una seria formazione che coinvolge medici, infermieri, psicologi, fisioterapisti, assistenti sociali, volontari e assistenti spirituali. In alcuni paesi, ad esempio gli Stati Uniti o il Regno Unito, la medicina palliativa è una vera e propria specializzazione. E anche paesi europei dove non lo è (o non lo è ancora) offrono sempre più la possibilità a medici ed infermieri di formarsi in modo specifico con master o corsi postlaurea. La settimana scorsa ero in visita alla Università Cattolica di Mursia, in Spagna, che ha in programma per l’anno prossimo un Master universitario sulle Cure palliative.

In Italia la legge 38 del marzo 2010 all’articolo 1 comma 1 «tutela il diritto del cittadino ad accedere alle cure palliative e alla terapia del dolore» definendo poi una serie di strumenti, tra cui le «reti» sul territorio, che mirano a favorire lo sviluppo e l’integrazione di centri che si occupano dei malati in fase avanzata di malattia. Bisogna sottolineare che, a differenza di altri paesi come la Francia, è finora mancato in Italia un valido coordinamento a livello nazionale che riesca a limitare le grandi differenze tra una regione e l’altra nello sviluppo di programmi di cure palliative e che ancora molto faticosa in alcune realtà pare l’integrazione tra pubblico e privato, ad esempio no profit.

Purtroppo non c’è ancora un’adeguata conoscenza e neppure un sufficiente impegno per far conoscere e quindi praticare le cure palliative. Lo scarso impulso dato a questa prospettiva facilita la triste altalena tra accanimento e abbandono terapeutico. Peraltro, il senso stesso che si dà al termine «palliativo» è facilmente equivocabile: si pensa a qualcosa di inutile, di non risolutivo, quindi da non perseguire con serietà. In alcune aree, al contrario, si pensa che le cure palliative siano in realtà una eutanasia mascherata. «Coprire» i sintomi che possono rendere difficile la vita di un malato, «avvolgere», ossia accompagnare con affetto e cura, chi rischia di restare solo in momenti così delicati, è il senso più vero del termine «palliativo ». Marie De Hennezel, una nota palliativista francese, racconta questo episodio: “Gli amici con cui sto cenando stasera, quasi tutti intellettuali parigini, hanno un’idea sbagliata delle cure palliative. Le vedono come un tentativo – felpato, morbido – di mascherare l’aspetto penoso e sordido della morte. Uno di loro usa addirittura la definizione ‘mortorio di lusso’. Parlano di negazione della sofferenza, c’è chi prende a prestito l’etimologia del termine “palliare” (pallium in latino significa manto) per sostenere la sua tesi di travestimento della morte. Mi batto con foga per tentare di sfatare quell’immagine falsa. No, non mettiamo un coperchio sulla sofferenza degli altri, non rifiutiamo di vederla, di sentirla, e se la rivestiamo, lo facciamo con un manto di calore e di tenerezza, affinché sia un po’ più leggera da portare. Cito una sura del Corano scoperta di recente: ‘Che la tenerezza ti ricopra, tu, l’altro, come un manto’. E pongo la domanda: ‘Circondare le spalle di chi soffre con un manto, vuol forse dire negare la sua sofferenza?’”.

  1. Non sempre si può guarire, sempre si deve accompagnare

La medicina per lungo tempo non ha potuto far altro che prendersi cura della persona malata attraverso il sostegno, l’accompagnamento, il conforto. E ha potuto sollevare solo in parte il dolore e la sofferenza procurata dai sintomi della malattia, riuscendo solo raramente ad incidere in maniera veramente efficace sulla malattia arrestandone il decorso e portando il paziente a guarigione. Ma la “guarigione”, che per molti secoli ha rappresentato una possibilità solo marginale della medicina, oggi gioca un ruolo preponderante, al punto da convogliare su di sé, possiamo dire, l’attenzione esclusiva della medicina contemporanea. C’è però un rischio in questo shift dall’obbiettivo del prendersi cura (to care) della persona malata a quello del curare (to cure), nel senso di guarire. Il rischio è che, soprattutto nei contesti fortemente tecnologizzati, si guardi alla eliminazione della malattia come all’unico obiettivo da perseguire. Questo atteggiamento, a sua volta, comporta due conseguenze. La prima è quella del rischio di superare la ragionevolezza nell’uso dei trattamenti medici, al fine di ottenere una guarigione che “deve” essere ottenuta a tutti i costi, perché in ogni mancata guarigione si vede una sconfitta della medicina. In questo modo, però, si pongono le premesse che conducono a un eccesso di trattamenti, il cosiddetto “accanimento terapeutico”, finendo per procurare al paziente sofferenze dovute a un impiego di mezzi, spesso invasivi, che perde di vista il bene integrale della persona: fare tutto il possibile (se questo viene inteso nel senso di utilizzare sempre e comunque tutti i mezzi che la medicina offre) può significare fare troppo (cadere cioè in un eccesso che danneggia il paziente).

La seconda conseguenza è quella di abbandonare il paziente nel momento in cui viene meno la possibilità di ottenere la guarigione: se non posso guarire, si conclude il mio rapporto con il paziente, non ho più altro da fare per lui. Non è vero! Non possiamo guarire, ma possiamo ancora alleviare il dolore e la sofferenza e continuare a prenderci cura di quella persona. E non dovrebbe sembrarci poco, sempre però che in quel paziente, inguaribile, riusciamo a riconoscere quel valore incondizionato, quella dignità assoluta che abbiamo prima posto come fondamento imprescindibile dell’agire medico. Non si può parlare seriamente di umanizzazione della medicina se non si è raggiunta una comprensione vera, piena, convinta della dignità della persona umana, nella sua singolarità, anche quella gravemente malata, o morente. Ma proprio questo è il rischio che il paziente inguaribile corre oggi nella mentalità medica delle nostre società, quello della trascuratezza, del “tanto non c’è più niente da fare” o il “non ne vale la pena”. Si tratta di un discorso pericolosissimo che apre la strada per un verso all’abbandono e per altro verso a logiche eutanasiche, che vanno fermamente rifiutate. E le cure palliative sono un’efficace modalità per ridurre la pressione della domanda di eutanasia, poiché combattono le cause che ne sottendono la richiesta.

Ancora oggi, nonostante i notevolissimi progressi tecno-scientifici, la medicina non sempre può guarire, ma quasi sempre può riuscire ad ottenere un buon controllo dei sintomi. Certamente sempre può prendersi cura del paziente andando incontro alle sue esigenze fondamentali, sia quelle di natura corporeo-fisiologica (l’alimentazione, l’igiene, la mobilizzazione, etc.), sia quelle di natura psicologica, relazionale e spirituale, attivando anche quelle collaborazioni che possono sostenere un tale percorso. Se la medicina può talora, consentitemi il termine, “fallire” nell’ottenere la guarigione del paziente, mai fallisce nel prendersi cura della persona malata. Anzi è quest’ultimo l’ambito in cui la medicina ha la certezza di conseguire sempre il suo obiettivo. Paradossalmente, però, questo è l’aspetto più trascurato e a volte purtroppo ignorato della medicina. Basti vedere quanto è basso il numero di studenti sia di medicina sia dei corsi infermieristici, intenzionati a dedicarsi alla cura della persona in prossimità della morte e soprattutto della persona anziana. Si tratta di ambiti professionali scarsamente gratificanti rispetto ad altre specialità ben più ambite dai neolaureati. In realtà, per secoli, proprio il prendersi cura ha costituito l’identità propria della professione medica. Vi è una grande esigenza di sensibilizzazione e di formazione perché crescano l’attenzione e le competenze per un ambito di attività medica in cui molto può essere ancora esplorato e ricercato, anche per la continua evoluzione delle conoscenze e delle pratiche possibili.

 Il malato è vivo sino alla morte

Nella Chiesa Cattolica – come voi certamente sapete – si è sviluppata da tempo una grande attenzione per le cure palliative, anche nel magistero dei Papi. Già sottolineata da Pio XII, essa si è sviluppata con S. Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. L’importanza degli interventi del Papa Emerito è notevole. Egli ha definito tali cure precisamente con il nome di «palliative», ma troppo spesso i media non le hanno distinte dalla «terapia del dolore», lasciando aperta la porta per  ambigue spinte verso l’eutanasia. Solo per citare alcuni tra gli interventi più significativi, già nel messaggio per la XV Giornata Mondiale del Malato del 2007 Benedetto XVI  esplicitamente affermava l’attenzione verso i malati inguaribili “molti dei quali stanno morendo a causa di malattie in fase terminale […]”. “A questo proposito – aggiungeva poco oltre – è necessario sottolineare ancora una volta la necessità di più centri per le cure palliative che offrano un’assistenza integrale, fornendo ai malati l’aiuto umano e l’accompagnamento spirituale di cui hanno bisogno”.

Di fronte ai partecipanti della XIV assemblea generale della Pontificia Accademia per la Vita dedicata nel 2008 al malato inguaribile e al morente, il papa affermava  che “La Chiesa, con le sue istituzioni già operanti e con nuove iniziative, è chiamata ad offrire la testimonianza della carità operosa, specialmente verso le situazioni critiche di persone non autosufficienti e prive di sostegni familiari, e verso i malati gravi bisognosi di terapie palliative”. Rivolgendo in tale occasione uno sguardo particolare alle famiglie, spesso duramente provate e poco considerate, il papa ha di nuovo ricordato che “anche sul versante della regolamentazione del lavoro” si dovrebbe garantire maggiormente chi si trova impegnato nell’assistenza di un familiare malato. Possiamo quindi richiamare due punti fondamentali che risaltano dalla pratica delle cure palliative.

In primo luogo, la domanda di eutanasia o suicidio assistito è nella quasi totalità dei casi figlia dell’abbandono terapeutico (e sociale) del malato. Una volta che si sia messa in atto una valida presa in carico multidisciplinare del paziente e coinvolta positivamente la famiglia nel processo di cura è rarissimo trovarsi di fronte ad una richiesta di morte. Un noto neurochirurgo italiano, Giulio Maira, alla mia domanda se avesse avuto pazienti che gli hanno chiesto l’eutanasia, mi ha risposto: “I pazienti, mai. I famigliari varie volte”. E’ un’affermazione che fa riflettere. Per quel che concerne il contesto della cura, non bisogna dimenticare che, quando è possibile, il migliore ambiente di cura resta la propria casa se, ovviamente, è dotata del necessario per la cura. Ed è noto ormai che le cure mediche ed infermieristiche disponibili in ospedale sono, nel caso delle cure palliative, effettuabili anche a domicilio, a patto di essere seguiti da un’équipe medica ed infermieristica capace di fornire un servizio di reperibilità e di avere la collaborazione di uno o più familiari.

In secondo luogo, l’abbreviazione della vita non fa parte, e in ogni caso non ha mai fatto parte, del bagaglio delle proposte mediche : in questo senso la stessa definizione di « suicidio medicalmente assistito » reca in sé una contraddizione evidente. Se di suicidio si tratta non vi deve essere alcun ruolo per il medico. La motivazione della sofferenza non può spingere alla soppressione di un essere umano celandosi dietro la maschera di una finta e spesso ostentata pietà, ma deve rappresentare un motivo in più per mobilitare tutte le risorse umane e scientifiche disponibili, al limite per trovarne di nuove, per accompagnare chi muore in modo veramente umano. Scrive bene Marina Sozzi : « Le cure palliative non si propongono né di allungare né di abbreviare la vita, e pongono al centro dell’attenzione non la malattia, ma il malato, che deve essere considerato una persona alla quale accostarsi in modo olistico. Il morente (con la sua famiglia, non meno sofferente di lui) va ‘accompagnato’ e ascoltato, aiutato a trovare il senso dell’ultima fase della sua vita, ad essere soggetto di decisioni che lo riguardano e che caratterizzano la fine della sua esistenza. Il malato deve restare vivo fino alla morte, e non morire socialmente prima che biologicamente ».

 Conclusione

Avviandomi alla conclusione vorrei ribadire la mia convinzione che occorra alimentare in tutti i modi la ricerca delle vie migliori per la promozione della salute, la difesa della persona umana e dei suoi fondamentali e inalienabili diritti. Il lavoro umano di cura, che fronteggia la vulnerabilità materiale e spirituale di noi umani, in qualsiasi forma e professione, vive già sempre sul filo del paradosso anti-utilitaristico. Ma è il paradosso che ci rende umani.

Gli uomini e le donne delle quali ci sentiamo impegnati a prenderci cura, da che mondo è mondo, sono creature mortali. E da questo non le guariremo. Eppure, nulla è più universalmente qualificante e commovente della nostra quotidiana lotta contro i segni dolorosi della fragilità che annuncia la nostra condizione mortale. Noi lottiamo strenuamente perché non sia l’avvilimento della morte a decidere il valore della vita. Lottiamo, perché non sia la malattia a decidere l’utilità della nostra vita, il valore della nostra persona, la verità dei nostri affetti. Noi accettiamo la nostra condizione mortale. Resistiamo all’illusione delirante di poter cancellare il mistero di questo estremo passaggio, con i suoi dolorosi segni di contraddizione.

Il lavoro della cura è il nostro impegno a rendere umana questa accettazione, impedendole di diventare complicità. Insomma, noi ci rifiutiamo di fare il lavoro della morte: anche solo simbolicamente. L’atto della cura accetterà – e aiuterà ad accettare – il proprio limite invalicabile: con tutta la delicatezza dell’amore, con tutto il rispetto per la persona, con tutta la forza della dedizione, di cui saremo capaci. Nessun atto di cura, però, vorrà portare il segno di quella complicità con la morte: nemmeno nell’apparenza.

Questa mi sembra la sfida – difficilissima e umanissima – che abbiamo davanti e che credo dobbiamo affrontare insieme. L’accompagnamento ad accogliere la necessità di vivere umanamente anche la morte, senza perdere l’amore che lotta contro il suo avvilimento, è l’obiettivo della “prossimità responsabile” alla quale tutti, come essere umani, siamo chiamati. L’intera comunità deve esserne coinvolta. Non staremo a guardare la morte che fa il suo lavoro, senza fare nulla. Ma non faremo il lavoro della morte, che ci libera dal disagio, come fosse un atto d’amore. L’amore per la vita, nella quale abbiamo amato e ci siamo amati, non è più solo nostro: è di tutti coloro con i quali è stato condiviso. E così deve essere, sino alla fine. Nessuno deve sentirsi colpevole del peso che la sua condizione mortale impone alla comunità dei suoi simili. Siamo umani. E l’idea umana della cura contrasta l’idea della malattia come esclusione dalla comunità e colpa imperdonabile. Per non dire del Vangelo, naturalmente, che ce ne libera anche teologicamente.

(Conferenza a Bari – 25 maggio 2018)