Contro il Coronavirus con gli anticorpi della solidarietà

di Domenico Agasso Jr

Il Covid-19 si può sconfiggere «con i mezzi tecnici e clinici» ma solo se uniti agli «anticorpi della solidarietà». Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, fa sentire la sua vicinanza a chi sta soffrendo e a chi pensa al futuro con timore a causa della pandemia. E anticipa alla Stampa i contenuti di un documento, intitolato Coronavirus e fraternità umana, che l’Accademia sta per pubblicare, per aiutare a trovare un senso a questo tempo sospeso tra preoccupazioni e quarantene.

Monsignor Paglia, perché il documento?

«Politica, scienza e religione, di fronte a una pandemia globale, sono chiamate a unire gli sforzi. I mezzi tecnici e  clinici del contenimento devono essere integrati da una vasta e profonda complicità con il bene comune. Va evitata la tendenza alla selezione dei loro vantaggi per i privilegiati a scapito dei vulnerabili in base a cittadinanza, reddito, politica, età».
A proposito dei governi: c’è qualcosa che stanno mancando di fare?
«Mentre, da una parte, si vedono segnali di collaborazione, dall’altra purtroppo ne emergono altri di segno opposto. Quanto sarebbe importante che le decisioni si prendessero in maniera coordinata…È indispensabile un tavolo comune».
Qual è l’atteggiamento da tenere come singoli cittadini in tempi di pandemia?
«Uno su tutti: l’altro è il mio alleato, oppure la comunità evapora e io stesso sono perso».
Chi è l’altro?
«È la persona che cammina e mi saluta a un metro di distanza perché tutela me e sé stesso. Facciamo in modo di non dimenticare l’esperienza di queste settimane difficili: ci sacrifichiamo per noi stessi e per gli altri. Il cristianesimo, fin dalle origini, concepisce l’umanità come fraternità universale e la interpreta come vicinanza responsabile tra tutti gli esseri umani».
È la via per vivere in un mondo migliore?
«Sì, ma serve un passo in più: il prossimo non è più solo quello vicino fisicamente. Oggi il mondo è interconnesso e prima riusciamo a comprenderlo, prima saremo una vera comunità globale».
Qual è la sfida?
«Siamo a un passaggio cruciale nella storia dell’umanità. Dobbiamo attrezzarci, anche
culturalmente, per trasformare la nostra resilienza in un’opportunità epocale, che ci persuada della necessità di
abbandonare uno stile individualistico, inospitale e anaffettivo per una prossimità responsabile».
Quali sono i problemi provocati dall’individualismo?
«Il moderno potenziamento dell’esclusivo interesse individuale, riconosciamolo, ci è sfuggito di mano. Nato come
sacrosanta affermazione del valore inviolabile della persona e dell’integrità dei suoi diritti, ha finito con l’ erodere il senso della vita comune. L’isolamento di queste settimane non deve far vincere l’individualismo. Altrimenti corriamo il rischio di una pandemia di solitudine».
In questi giorni drammatici uno dei principali problemi è la mancanza di posti letto, che ha portato a considerare la possibilità di una selezione in base all’età: che cosa ne pensa?
«È delirante selezionare gli anziani – perché di questo si tratta – per scartarli rispetto ai più
giovani. La dignità non ha età. Tutti abbiamo un compito, nessuno escluso, anche gli anziani. Non dimentico che il primo miracolo di guarigione di Gesù fu alla suocera di Pietro: la prese per mano, la guarì ed ella si mise a servirli».
Chiese aperte o chiese chiuse ai tempi del rischio contagio: lei che cosa pensa sia
meglio?
«Sono secoli che la Chiesa parla dell’Eucarestia come medicina (e non solo dell’anima), e papa Francesco della Chiesa come “ospedale da campo”. Sarebbe come chiudere le farmacie e gli ospedali! Certo, vanno rispettate
con rigore tutte le norme per evitare il contagio, anche con gli orari di apertura. Ma chiuderle sarebbe drammatico, anche per chi non crede. Sono il “segno” che l’oltre è aperto, non chiuso! Ed è più forte: Dio è obbligato ad ascoltare il grido: “Liberaci dal male!”».

LA STAMPA