Africa ed Europa

Potremmo affrontare in tanti modi questo nostro discorso sull’Africa. Proviamo ad affrontarlo con le sfide che ha dinanzi. L’Africa è il continente più giovane del mondo (sono la schiacciante maggioranza), quindi un continente demograficamente ricco e pieno di risorse umane, che sono la cosa più importante.

 Rivoluzione antropologica

Anche in Africa la globalizzazione provoca una rivoluzione antropologica che colpisce in particolare i più giovani. A differenza degli adulti, i giovani del continente sono più indipendenti, intraprendenti, più pronti all’avventura. E’ il portato della globalizzazione: movimento libero di merci, denari e persone. Qs è un grande cambiamento che non ha paragoni nella storia. Vi sono stati altri momenti di globalizzazione (imperi, religioni, belle epoque…) ma qs è particolare perché non c’è limite, riguarda tutti, nessuno sfugge. Di conseguenza il desiderio di muoversi, di cercare occasioni e opportunità è più forte. Come una febbre che è iniziata nel 90 con la finanza, ha intaccato tutti i settori economici e ora prende anche le persone. Una gran parte dei flussi migratori dipende da questo: ci si muove per muoversi, perché si cerca, si esplora, è un’avventura… chi parte sono i più giovani e tra di loro i più intraprendenti, che hanno studiato, che hanno prima esplorato internet, che sanno…i volti di Lampedusa possono ingannare: c’è tanta voglia di riuscire, di cambiare la propria vita…

In qs rivoluzione antropologica c’è un risvolto negativo: si è anche più soli. Per es. le vecchie generazioni africane (e non solo) pensavano (e pensano) che le cose si devono fare insieme, come gruppo, partito, associazione o tribù, etnia, almeno classe di età. L’indipendenza e l’unità africana furono i sogni di tale generazione. Le delusioni prima e la globalizzazione poi, hanno mutato tale orientamento: ora anche in Africa il primo posto è dato al destino individuale, come dovunque. La solidarietà naturale non c’è più, deve essere costruita, bisogna convincere le persone sul perché essere solidali. Pensate alla crisi delle grandi reti, dei partiti, della politica ecc. Se oggi gli adulti non si fidano più dei politici che li hanno delusi, i giovani africani non si fidano più della politica stessa, nemmeno dei sogni incompiuti dei nostri genitori. La stessa cosa con il sogno europeo. I sogni svaniti del riscatto del mondo nero, il valore di “ubuntu” (io sono perché noi siamo) o il Soleil des indépendances, le altre ideologie panafricane: tutto un mondo che ormai scompare. In Europa entra in crisi parallelamente il sogno dell’Europa unita, costruita sul sogno della pace… Simili ai loro coetanei degli altri continenti, i giovani africani non amano più né credono più spontaneamente al destino collettivo, come facevano i loro genitori. Non pensano ad avventure comuni, se non quelle che li vede risucchiati da qualche “signore della guerra” e in Europa ai sogni nazionalistic che diventano incubi.

In maggioranza oggi si cerca il benessere individuale. L’alternativa dell’emigrazione, valutata dalla parte della società africana, è cosa diversa dall’allarme che provoca in Europa. E’ una ricerca di futuro, buttandosi in terribili traversate senza ritorno a prezzo della vita. Ma è anche un’impresa pionieristica, un’avventura. Tra questi giovani è diminuito, o si è laicizzato, l’amore per la propria terra: sanno che nella globalità devono cavarsela da soli e per arrivare a tale risultato, una terra vale l’altra.

 Per le donne è ancora diverso

Il controllo degli adulti, una volta asfissiante, vacilla, la famiglia non è più quella di una volta, l’autorità degli adulti anche, ma meno per le ragazze la cui esistenza è ancora condizionata da pregiudizi, “anziani” in tutte le scelte della vita, matrimoni precoci, fare figli, femminicidi ecc. In Africa all’età di vent’anni oltre la metà delle ragazze è già madre e fare figli è considerato anche dalle famiglie una forma di investimento. Poi si scopre che il 40% delle famiglie africane è retto da una donna sola ma anche in Francia c’è una maggioranza di donne con figli non sposate.

La vita urbana

Globalmente la vita oggi è più urbanizzata del passato. Viviamo al 60% in città, non sempre grandi. In città ci sono più opportunità, servizi, occasioni. Ma si creano delle enormi bidonvilles. Un’altra

caratteristica della globalizzazione è la città tentacolare. Si cerca di stare no0n lontano dal mare: oltre il 60&% della popolazione mondiale vive a meno di 100 km dal mare: perché il mare rappresenta gli scambi, il 95% degli scambi avviene via mare. I porti sono importantissimi e ogni paese vuole avere il suo. Ql che per le persone è l’aeroporto, per le merci è il mare. Il giovane africano urbanizzato di oggi ha una vita diversa da quella di ieri: fragilità della famiglia, dei legami sociali, fine dei sistemi tradizionali di protezione, dalla ricerca e mancanza di lavoro, dal rischio di ammalarsi, dal desiderio di emigrare e dal dispotismo delle istituzioni. La stragrande maggioranza della popolazione è convinta che emigrare per assicurasi un futuro migliore sia un diritto inalienabile. Fino a vent’anni fa era una dechirure, un’eccezione, uno strappo. Due terzi dei giovani dicono che lo faranno certamente appena organizzati; uno su sette dichiara che per raggiungere un paese più ricco metterebbe volentieri a rischio la propria vita.

Cultura della competitività

Anche in Africa la globalizzazione ha cambiato il quadro di riferimento: una cultura competitiva e materialistica si sta affermando fortemente accanto (e complice ) l’urbanizzazione. La ricerca del proprio interesse ad ogni costo è molto forte. La spinta ad emigrare va anche letta come una conseguenza di questa situazione e non solo perché è caduta ogni speranza nel futuro del proprio paese. Anzi: è proprio qd un paese entra in una fase di sviluppo (middle income) che iniziano i forti flussi. Anche perché migrare costa: 7000 euro per arrivare in Europa. Tutti sono presi dalla “fretta” di riuscire a carpire qualche briciola dello sviluppo globale. Ci si contagia e ci si pressa a vicenda.

E’ una nuova cultura. E’ il senso pessimistico della nota lettera di Yaguine e Fodé, due adolescenti guineani morti nel carrello di atterraggio di un aereo nel tentativo di emigrare. Sentendosi “allo stretto” nella propria terra ma anche attratti dal vivere non lontano dall’aeroporto, dallo spirito di avventura, più istruiti dei loro genitori (la lettera), mettono in atto ogni possibile espediente per farcela. Rappresentano questa nuova mentalità.

Violenza

Questo è il portato del materialismo vigente: la vita competitiva, frettolosa, dove si è più soli, porta alla violenza. Ogni cosa va conquistata con la forza, i modelli proposti sono di successo con la forza, si strappa il successo. Se l’insicurezza del futuro rende tutto molto competitivo, anche i giovani imparano ad essere aggressivi, meno inclini a pazientare, ad obbedire. Tale competitività supera i legami familiari e di amicizia e può far calare il livello etico generale: tutto è messo in vendita, niente è gratuito. Se niente è gratuito allora quasi tutto è lecito. La violenza diffusa, di cui spesso parla A, diviene generale e prende il posto della conflitto. E’ quello che accade in America latina: le guerre finiscono ma la violenza diffusa cresce. Qs succede anche in Africa.

C’è una penetrazione traumatica dei nuovi valori della concorrenza globale, che nelle grandi città assume spesso i contorni della lotta per la sopravvivenza. Il “si salvi chi può” e il “ci si salva da sé” rappresentano una mentalità molto forte, gridata ad ogni angolo ed ogni giorno. Se non ne sai cogliere le opportunità, sei definito un perdente o un pazzo.

Le sette

Proliferano per tali ragioni anche sette e chiese del risveglio che predicano la teologia della prosperità: per portare ordine nell’universo morale e materiale caotico dell’Africa, viene proposta una nuova forma di autostima e nuovi modi di condotta davanti al fallimento di quelli tradizionali.

Si cerca di reinventare il passato, superando una storia africana fatta anche di solidarietà. La questione della salvezza individuale è legata alla demonizzazione del passato e del diverso, ma soprattutto alla riuscita sociale, al successo e alla prosperità individuale. All’interno della nuova classe media africana molti sono gli adepti a tale versione del cristianesimo pentecostale. E’ una risposta in particolare per gli ultimi, i i giovani delle bidonville e degli slum, senza alternative, senza diritti, senza famiglia, senza clan o etnia, allontanati dalla società che conta. Possono essere preda per ogni avventura e per ogni setta.

L’educazione

Uno dei motivi ricorrenti in questa Africa globalizzata è la crisi dei sistemi di educazione pubblica. C’é collera contro lo Stato e i “potenti” che, mentre mandano i loro figli nelle scuole all’estero, hanno lasciato andare in rovina le strutture scolastiche ed educative, non hanno pagato bene gli insegnanti rurali, non hanno costruito gli edifici scolastici né le strade per raggiungerli. La fine del sistema scolastico-educativo in Africa – dovuto alla corruzione ma anche all’aggiustamento strutturale – è all’origine di molta rabbia e di molte delusioni. La chiesa, che già ha il monopolio del sistema sanitario (almeno quello decente) ora deve tornare ad occuparsi anche di quello educativo che aveva all’epoca delle missione ma che lo Stato aveva voluto riprendere, e aveva promesso di sviluppare.

Ci sono state sequestrate le scuole ed ora… tocca rifarle. perché ciò che dio buono c’è è privato e molto costoso. Non è un caso che molte diocesi ci pensano e che la CSE abbia le scuole della pace…

Come altrove, la crisi dell’immagine dell’educatore, così autorevole nell’Africa indipendente, rappresenta la fine di un mito e di un principio di  autorità. E’ sufficiente leggere i romanzi della prima generazione di scrittori africani dopo l’indipendenza, per rendersi conto chi era l’“instituteur” o il “teacher”. Julius Nyerere, il padre della Tanzania, si fece chiamare mwalimu (maestro in lingua swahili), tutta la vita.

Internet è un grande strumento di globalizzazione culturale, dei costumi e delle idee. I giovani in particolare, che in genere studiato, ascoltano i programmi delle emittenti internazionali e utilizzando internet: in Africa uno strumento totalmente in mano loro. A ciò si devono aggiungere i cellulari, che ormai puntano sul continente nero come nuovo mercato. La gioventù africana nel suo complesso è molto collegata con la cultura e i modi di vita globalizzati attraverso i mezzi di comunicazione gratuita.

Internet oggi permette l’interattività: file di giovani si ammassano agli internet point per chattare con sconosciuti nel mondo ricco. Le ragazze africane mandano foto sperando di trovare il principe azzurro. Ci sono paesi più evoluti, come la Nigeria, dove al posto della radio è sempre accesa la TV satellitare. Tutta questa comunicazione globale non è estranea al crescere della rabbia e al formarsi dei progetti migratori.

Traffici

L’aspetto più doloroso che riguarda i giovani africani è quello del fenomeno del traffico di esseri umani e del lavoro minorile. Le vittime minori sono numerosissime, in specie ragazze e bambine.

Le mafie coinvolte nella tratta fanno profitti di decine di miliardi di dollari l’anno, non lontani da quelli dei narcotrafficanti. C’è il dramma del lavoro: altri milioni di minori rischiano la vita nelle miniere, come nella regione del Sahel, o nelle piantagioni come in Africa occidentale. Infine c’è il fenomeno dei servi: minori domestici asserviti, in Kenya, Benin ma anche Haiti, Brasile, Pakistan, ecc.

Lo Stato

Una parola ora per le conseguenze della globalizzazione a livello geopolitico: Stati fragili, frontiere artificiali, corruzione, mancanza di sviluppo e presenza di materie prime sembrano giustificare un endemico stato di guerra permanente o a bassa intensità, diseguaglianze. La cosa più grave è che il conflitto inizia ad essere considerato “accettabile”, a meno che non metta in discussione la stabilità globale. Guerre come quella che funestò il Congo, con 5 milioni di morti, o quelle degli anni Novanta in Liberia, Sierra Leone, Somalia e Rwanda, o le più recenti in Sud Sudan, tra Eritrea e Etiopia, sono considerate un prezzo che si può pagare. Diventano pericolose solo se attraggono nella loro orbita tormentata fenomeni terroristici di vari tipo.

La guerra e la pace

Alcuni giungono a sostenere che le guerre d’Africa sono la continuazione logica del periodo delle indipendenze, in cui non fu possibile cambiare le frontiere stabilite dal colonizzatore. Gli Stati che la decolonizzazione ha disegnato non sarebbero sostenibili e quindi “vanno lasciati fallire”. Jeffrey Herbts sostiene che gli Stati che falliscono (soprattutto in Africa) vanno “decertificati” e lasciati morire, mentre andrebbero riconosciute nuove entità più viabili. Questo è molto grave: si gioca con la vita delle persone, con il loro futuro.

Per giustificare tale discorso c’è il motivo che la guerra non finisce mai. Ci sono dei conflitti (in cui siamo coinvolti per la ricerca della pace) che si perennizzano, anche se a intensità mutevole. Le guerre che non finiscono mai (Casamance, grandi laghi, ora turbolenze in Mozambico, Repubblica democratica del Congo, Eritrea ed Etiopia…) sono quelle che più fanno allontanare dalla simpatia per l’Africa: l’impressione è che sia tutto così complicato e che la guerra sia “naturale”. Ma è un fatto globale: medio oriente ecc.

Queste guerre a bassa intensità, che ogni tanto si infiammano per poi ritornare a bassa intensità, sono devastanti perché corrodono il tessuto umano e sociale. Ci sono nuove guerre? Qualcuna ma soprattutto tali zone grigie. E poi l’islam e il terrorismo: sono 20 anni e più che se ne parla e non termina mai…quasi ci porta a credere che sia inguaribile…

Come un cataclisma naturale che ogni tanto avviene, come il terremoto. L’uomo e la sua volontà possono poco, si comincia a pensare. Eppure – come dimostrato dai vescovi congolesi – si può sempre fare qualcosa.

Spesso davanti a tante guerre c’è delusione e rassegnazione, perdita di ideali, di ambizione. Non si crede più tanto che la politica possa risolvere. Si sospetta che dietro ogni guerra ci sia una regia maligna, un complotto. Gli organismi sovranazionali, pur numerosissimi, non sembrano adeguati: si spegne il sogno multilaterale dell’ONU. Le guerre si mescolano con fenomeni criminali e attori non facilmente identificabili: economia di rapina, terrorismo e tortura, criminalità organizzata. Non si capisce più bene il confine e tutte le guerre sono “sporche” (ma ce ne sono mai state di pulite?).

Sembra che ci sia un ciclo: alcune guerre vanno avanti sempre allo stesso modo … Guerra e diseguaglianza si mischiano perché la guerra produce povertà…è la madre di tutte le povertà. Esiste il peso della violenza diffusa e non politicamente governata, frutto di odio sociale ed etnico oppure con obiettivi prevalentemente criminali.

C’è la grave diffusione di “falsi profeti”, che si ammantano di discorso religiosi e comunicano messaggi violenti o di odio, come le religioni della prosperità che sono subalterne a questo mondo e alla dittatura del materialismo. Osserviamo il ruolo delle identità (nazionalistiche e etiche) così come quello del fenomeno religioso che ha assunto caratteri globali, deterritorializzati e deculturati, mediante la diffusione di nuovi prodotti religiosi utilizzabili ovunque (è il problema del islam globale che produce jihadismo). C’è il riarmo di intere zone del mondo: dopo il calo delle spese militari dovuto alla fine della guerra fredda, molte aree mondiali si stanno riarmando e non solo quelle in crisi. Tutti questi elementi portano verso il conflitto. Molta gente cede alle sirene degli estremisti e invoca la guerra o la accetta.

Ma qui voglio sottolineare il fallimento del modello conflittuale nelle crisi: oggi non è facile per nessuno vincere una guerra o risolvere una crisi  mediante la guerra. Anzi una guerra tira l’altra, senza nessuna soluzione (Iraq, Afghanistan, Libia ecc.). Nessuno vince più. Quindi la guerra è uno strumento inutile per risolvere, è obsoleta e va superata. Questo per motivi fattuali prima che morali.

Tutto ci spinge a lavorare per la pace sempre più in profondità. Nella globalizzazione ci vogliono più cuore ma anche più intelligenza e più alleanze tra uomini di buona volontà. Quello a cui veramente assistiamo è un mondo di impotenze incrociate: impotenza delle grandi potenze a mettere ordine, impotenza degli emergenti ad affermarsi, impotenza degli estremisti a vincere, dei terroristi a guadagnare qualcosa… l’unico risultato è più sofferenza e più male. Così vediamo chiaramente che non sono gli uomini a “gestire la guerra” ma ne sono manipolati. La guerra è il male assoluto: essa manipola l’uomo che vi si sottomette…

I poveri, la massa degli esclusi, gli unici veri esclusi, sono anche le vittime di tutto questo. Essi hanno un potere, una forza che osserviamo in loro e in noi quando facciamo servizio. Scatenano forze di solidarietà impensate. Con loro applichiamo un metodo che ideale umanistico, la comunità stessa lo incarna. I poveri ci insegnano a vincere lo spirito del male che è guerra. Preghiamo dunque di avere l’intelligenza e la profondità necessarie per  diventare tutti pacificatori.

In tale contesto c’è in Africa una sfida per la chiesa che è anche un grande spazio: come non farsi prendere dalla cultura materialistica e dai suoi effetti, come contrastare gli estremismi, come avere un ruolo rilevante per costruire la pace e la convivenza? Guardiamo ai fatti: guerre endemiche (piccole e grandi) Casamance, RDC, RCA, Sud Sudan, Eritrea-Etiopia, Somalia, tensioni rinascenti (etniche o politiche) Guinea, RCI, Burkina, Burundi, Congo Belga, Mozambico, Gambia terrorismo, Mali, Niger, Nigeria nord est in guerra in altri paesi: Ciad, senza considerare i 6 paesi dell’Africa nord, sono crisi in 17 stati su 45… alcuni conflitti sono più scandalosi di altri, come il sud Sudan…Dobbiamo poter fare sempre qualcosa.

I segni dei tempi che emergono dallo scenario tratteggiato dimostrano che la prima cosa da fare è ricostruire la pace ove possibile sempre…. il che significa utilizzare l’autorevolezza della chiesa verso le parti, ma anche connettere ciò che la globalizzazione ha frammentato per rifare un popolo.

Ad esempio riallacciare le relazioni sociali in città divenute mostruose dove tutto si sfilaccia: è un’opera che pochi fanno. Occorre sempre trovare un’iniziativa di ricostruzione del tessuto sociale, di connessione tra mondi che non si parlano, tra quartieri, tra centro e periferie, tra generazioni. Questo è già fare pace. Connettere significa comprendere e poi integrare. “Rifare famiglia” è un metodo di pace: significa un’opera di cultura diffusa, una rinnovata forma di “cultura popolare evangelica” che richiede tempo, perché connettere è un’occupazione paziente. E’ la nuova via dell’inculturazione. Ipocritamente nessun leader ammette oggi di scegliere per la guerra. Sostiene invece che la guerra “lo ha scelto” e di essere stato costretto a rispondere all’“appello della storia”. Ma si tratta di “passività morale” e “attivismo demoniaco”, per utilizzare le parole di Thomas Merton: “questa passività morale è il più tremendo pericolo del nostro tempo (…) bilanciata , o sbilanciata, da un attivismo demoniaco, una frenesia nei confronti delle più varie, eclettiche, complesse e anche assolutamente brillanti improvvisazioni tecnologiche (…) [ma] noi non siamo semplicemente in grado di compiere gli adeguati adattamenti morali, spirituali ed intellettuali alla proliferazione della forza” (MERTON 2005). La dottrina della guerra inevitabile è divenuta contagiosa. Cosa c’è di più reale e di più “incontournable” di tale realtà che l’uomo non controlla? La guerra e il disprezzo si fanno cultura e da cultura divengono una politica, deformando l’anima di popoli interi.

La “guerra preventiva” che dovrebbe difendere, si trasforma così in “guerra diffusa” e inquina il clima sociale, anche all’interno di paesi in pace, complice il vittimismo. Occuparsi di pace significa coltivare e valorizzare le “tensioni unitive” presenti in ogni società: è la speranza, realista e tenace che la pace sia sempre possibile. Se non esiste un’ineluttabilità della guerra, la pace si può fare.

Occorre solo trovare le vie per realizzarla, con ragionevolezza e pazienza, ricostruendo le fratture, medianti credibili negoziati, creando un’intelaiatura di garanzie per il futuro, mostrando che non c’è niente di peggio che la guerra, dando sbocco alla volontà di pace di popoli, “ostaggi” della guerra, di una cultura o di una propaganda di guerra. Nel mondo spaesato non è sufficiente mantenere solo una posizione di “testimonianza” del valore della pace –diciamo, etica o religiosa-, ma occorre agire e intervenire in modo concreto per cercare soluzioni in situazioni di conflitto e dimostrare la falsità dell’assunto “guerra ineluttabile”. Il nostro mondo ha oggi bisogno di pacificatori. E’ l’unico modo per contrastare la mentalità secondo la quale vi sono tornanti della storia in cui la guerra non si può evitare. Fare la pace è dunque una scelta che ha bisogno di creare una sua cultura, la prima condizione necessaria al convivere globale. La pace difende la vita di tutti, non solo quella dei poveri e dei deboli che non possono fuggire.

Occorre iniziare processi pazienti di pace nelle nostre città, con le élite, tra i giovani, nei villaggi e nel tessuto urbano caotico. Nell’EG il papa si  interroga su questo nuovo mondo urbanizzato, individualista, violento e ci chiede di “immaginare spazi di preghiera e di comunione con caratteristiche innovative, più attraenti e significative per le popolazioni urbane”. Chiede di guardare ai “non cittadini”, ai cittadini a metà o agli “avanzi urbani”, che sono moltissimi… (gli scarti) per “raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città”(70). A Bangui papa Francesco ha detto: occorre lavorare per la pace perché la pace è un vero lavoro. “La pace non è un documento che si firma e rimane lì. La pace si fa tutti i giorni! La pace è un lavoro artigianale, si fa con le mani, si fa con la propria vita”.