43esimo Congresso Società Italiana Trapianti Organi e Tessuti

Sono lieto di portare il saluto della Pontificia Accademia per la Vita e mio personale al vostro 43 Congresso Nazionale. Il tema dei trapianti d’organi e di tessuti interessa in maniera particolare l’Accademia per la Vita sia per il suo valore meedico-scientifico sia per il suo senso etico-antropologico. In questo breve saluto vorrei sottolineare, come mio piccolo contributo al Congresso, questo secondo aspetto che qualifica in maniera alta il senso del dono che iscritto nella prospettiva dei trapianti d’organi e di tessuti. Lo faccio partendo dal saluto che Benedetto XVI, rivolse ai partecipanti al Congresso Internazionale sul tema: “Un dono per la vita. Considerazioni sulla donazione di Organi” promosso dalla Pontificia Accademia per La Vita, il 7 Novembre 2008. Queste alcune delle parole di Papa Benedetto: “in un periodo come il nostro, spesso segnato da diverse forme di egoismo, diventa sempre più urgente comprendere quanto sia determinante per una corretta concezione della vita entrare nella logica della gratuità. L’atto d’amore che viene espresso con il dono dei propri organi vitali permane come una genuina testimonianza di carità che sa guardare al di là della morte perché vinca sempre la vita”.[1] Qualche anno prima, nell’Evangelium vitae (25.3.1995), al n. 86, san Giovanni Paolo II aveva parlato del dono degli organi come di un atto che, tra i «tantissimi gesti di donazione» di cui è intessuta la vita di molti uomini e donne, merita un «particolare apprezzamento». Ed è una caratteristica del magistero di Giovanni Paolo II l’insistenza nell’iscrivere il trapianto di organi nella prospettiva del dono.

In effetti, nella nostra fattispecie non si tratta semplicemente di donare qualcosa di proprio, “si dona qualcosa di sé, dal momento che ‘in forza della sua unione sostanziale con un’anima spirituale, il corpo umano non può essere considerato solo come un complesso di tessuti, organi e funzioni…, ma è parte costitutiva della persona, che attraverso di esso si manifesta e si esprime’ (Congregazione per la Dottrina della Fede, Donum vitae, 3). E’ per questo che ogni azione tendente a commercializzare gli organi umani o a considerarli come unità di scambio o di vendita, risulta moralmente inaccettabile, poichéviola la stessa dignità della persona”.[2] Il dono non è riducibile ad un puro atto esteriore, impegna la libertà stessa del donante: egli offre se stesso, diventa presente come persona nel dono che compie.[3]

Sappiamo bene che nell’ambito dei trapianti, si realizzano tre differenti modalità, in cui il legame – nel dono vi è il riconoscimento di un legame – tra donatore e ricevente assume forme diverse. Nella donazione da vivente, il donatore offre un organo in ragione del legame – di sangue o affettivo – che lo lega al ricevente; ad esempio, un genitore dona al figlio, la moglie al marito. Tale gesto è motivato primariamente dal beneficio per il proprio congiunto, riconoscendo che ciò concorrerà a migliorare la vita del ricevente. Nella donazione da cadavere, il donatore – e, ove non sia espresso, gli aventi diritto – dona alla comunità, che attraverso enti preposti distribuisce gli organi secondo parametri specifici. Il donatore non sceglie chi sarà il ricevente, non lo conosce. Infine, c’è una modalità di donazione chiamata buon Samaritano. Un soggetto vivente dona un suo organo senza voler sapere chi sarà il destinatario, che sarà scelto secondo criteri stabiliti dalla comunità scientifica.

Siamo di fronte a modalità diverse di donazione, in cui si passa da un legame molto forte tra donatore e ricevente ad una assenza di legame specifico. Come rendere ragione di questi gesti, in apparenza così diversi? E cosa accomuna la donazione fatta a persona conosciuta alla donazione fatta a uno sconosciuto? A mio parere è necessario scendere più in profondità e cogliere quella dimensione della circolarità del dono che è legata alla sostanza stessa delle relazioni umane. In tale prospettiva, nota Pierangelo Sequeri, il dono “non è una separazione da qualcosa a senso unico: come fosse una sporgenza di qualcuno che va a riempire la cavità di un altro. Il dono è sempre una forma di scambio e di corrispondenza il cui fondamento non è la ricchezza o la povertà. Il suo fondamento è sempre, in vario modo, il riconoscimento della qualità umana dei rapporti umani: per la quale vale la pena di voler bene e di soffrire, di imporsi dei limiti e di avere il coraggio di superarli, di accettare il rischio della relazione propriamente umana e di apprezzare la capacità di onorare i legami che la giustificano”[4]. Possiamo così dire che, in occasione del trapianto degli organi, si realizza – in un modo quasi nascosto – qualcosa che rivela una delle dimensioni centrali del vivere: la dimensione della gratuità. «Il trapianto è il processo di un dono, che riguarda contemporaneamente il donatore, il donatario e quell’oggetto simbolico che è il dono. Ogni dono è tale perché implica l’atto del donare, l’atto del ricevere e l’atto di donare un ‘donato’. In questo intreccio di relazioni, il dono di qualcosa diventa per il donatore la forma concreta del dono di sé, a favore di un altro, il donatario»[5]. Quanti gesti di gratuità hanno cambiato l’identità di chi li ha posti in essere. Molte persone che hanno dato il consenso alla donazione di un organo di un proprio caro hanno testimoniato che quel gesto ha influito, talvolta in modo rilevante, sulla loro esistenza. Il dono non solo non è a senso unico, ma configura una logica circolare. Il rapporto di dono è attivo-passivo sui due fronti: di chi dona e di chi riceve e a sua volta ri-dona, a sua volta, una seconda volta. E’ esemplare questa parabola evangelica.

Scrive l’evangelista Luca: “Entrando in un villaggio, gli vennero incontro dieci lebbrosi i quali, fermatisi a distanza, alzarono la voce, dicendo: ‘Gesù maestro, abbi pietà di noi!’. Appena li vide, Gesù disse: ‘Andate a presentarvi ai sacerdoti’. E mentre essi andavano, furono sanati. Uno di loro, vedendosi guarito, tornò indietro lodando Dio a gran voce; e si gettò ai piedi di Gesù per ringraziarlo. Era un Samaritano. Ma Gesù osservò: ‘Non sono stati guariti tutti e dieci? E gli altri nove dove sono? Non si è trovato chi tornasse a render gloria a Dio,all’infuori di questo straniero?’. E gli disse: ‘Alzati e va’; la tua fede ti ha salvato!” (Lc, 17, 12-19). Il ringraziamento da parte di uno straniero mostra che quel destinatario ha apprezzato e compreso il senso del dono; la riconoscenza dice al donatore che il suo gesto è stato apprezzato – e quindi lui stesso si sente riconosciuto – attestando la bontà della sua azione.  Non è stato così per gli altri nove. Ogni persona chiede di essere riconosciuta nella propria identità più autentica. Nota Paul Ricoeur: “E se, per fortuna, mi capita di esserlo, la mia gratitudine non va forse rivolta a tutti coloro i quali, in una maniera o nell’altra, hanno riconosciuto la mia identità riconoscendomi?”[6] Il dono autentico porta sempre con sé la speranza della gratitudine: è attesa e accolta, non è pretesa. Altrimenti tradirebbe il significato del dono.

Nella prospettiva del nesso tra gratuità e gratitudine, della logica circolare del dono, occorre essere avvertiti che ci sono alcune modalità che tradiscono il senso autentico del dono. Non sarebbe un dono, ad esempio, se fosse realizzato per opportunismo o per costrizione, strumentalizzando l’ignoranza o la fragilità del ricevente, ricattandolo più o meno subdolamente. E ancora, non sarebbe un dono, se esso esigesse la restituzione materiale forzosa di quanto si è donato, se non corresse il rischio di non ricevere nulla in cambio o di rimetterci del proprio, se anzi non liberasse ritualmente l’altro dall’obbligo di restituire coattivamente.

Va ribadito che nella logica del dono quel che apparentemente è una restituzione, in realtà è un «secondo primo dono», come dice Paul Ricoeur[7], perché è fatto liberamente, “in risposta” ad un dono che precede. Come poco sopra ho sottolineato, il riconoscimento del dono, con un secondo primo dono, è desiderato, auspicato, ma non esigito: così, si accetta e si accoglie il rischio di un “non ritorno”, pur nella speranza che, ricevendo il dono, l’altro diventi a sua volta capace di donare ad altri, più che al donatore stesso. Nell’esperienza del donare, alla cui origine c’è sempre l’esperienza del ricevere, l’uomo raggiunge il vertice delle sue possibilità, impegnando il suo bene più prezioso, la libertà; per questo il dono “rimane un’esperienza legata all’amore e alla gratuità: esso non potrebbe nascere in forza del comando della legge o assicurato dalla paura di una possibile punizione … Non può essere favorito da uno stile direttivo, autoritario, o improntato alla paura, ma piuttosto alla fiducia e all’assunzione di responsabilità”.[8] Più il soggetto è convinto che l’altro non è obbligato a restituire, più viene liberato da questo obbligo, più il suo gesto sarà libero, sarà fatto in forza del rapporto, nutrirà il legame, custodirà la relazione.

Un’ultima osservazione vorrei fare circa la “ordinarietà” della dimensione del dono o, se si vuole, della gratuità nelle relazioni umane. Si deve abbandonare una impostazione culturale che porta a qualificare l’atto del donare come una scelta eroica, unidirezionale, una sorta di altruismo esasperato, che alla fine rende il dono impossibile[9], irreale. Non si tratta, infatti, di compiere gesti straordinari, ma di continuare e prolungare quella trama di cui ogni vita è intessuta. L’esperienza del dono, infatti, rammenta a ciascuno “la propria identità filiale: non vivrei se non avessi ricevuto e se non continuassi a ricevere”.[10]Il dono rimanda al generare e all’essere generati, di generazione in generazione. In radice, la “logica” del dono rivela la verità profonda dell’umano, che è la “logica” della generazione, che è insieme essere generati e generare. Infatti, generare, «è, anzitutto, un atto umano nel quale si istituisce una relazione: e in questa relazione c’è chi dà, chi riceve, e sempre c’è in gioco ‘ciò che si dà’. Insomma, dobbiamo riscoprire con maggiore consapevolezza che “voler bene” significa “far essere”. Reciprocamente, all’origine di ogni scelta generante, c’è il riconoscimento (grato) di essere stati generati (passivo): «essere generato è fare esperienza di ciò che anzitutto ricevo: e ricevo non qualcosa, bensì addirittura me stesso … Ogni uomo, in quanto figlio, è donato a se stesso. Egli è radicalmente dono»[11].

In questa prospettiva si comprende il nesso tra donare a chi si conosce, la donazione da vivente, e donare alla comunità, la donazione da cadavere e la donazione del buon samaritano: riconoscere quanto si è ricevuto dall’altro, dagli altri, dalla comunità tutta. È in ragione della costitutiva relazione ad altri, che in libertà ci si apre al dono. Per cui dare e ricevere, gratuità e gratitudine, si richiamano e si garantiscono reciprocamente, secondo un circolo virtuoso, nel quale si realizza lo splendore della verità.

[1]Discorso di Benedetto XVI:Ai Partecipanti al Congresso Internazionale sul tema: “Un dono per la vita. Considerazioni sulla donazione di Organi” promosso dalla Pontificia Accademia per La Vita, 7 Novembre 2008.

[2]Discorso del Santo Padre Giovanni Paolo II: Al 18° Congresso Internazionale della Società dei Trapianti,  29 Agosto 2000.

[3] Benedetto XVI, Deus Caritas Est, n. 34.

[4] P. Sequeri, L’umano alla prova. Soggetto, identità, limite, Milano: Vita e pensiero, 2002, 129.

[5] M. Chiodi, Etica della vita. Le sfide della pratica e le questioni teoriche, Glossa, Milano 2006, 380.

[6] P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, Milano: Cortina, 2005, 5.

[7] P. Ricoeur, Percorsi del riconoscimento, 270.

[8] G. Cucci, Altruismo e gratuità. I due polmoni della vita, Assisi, Cittadella, 2014, 197-198

[9] J. Derrida, Donare il tempo, Milano, Cortina, 1996; ID., Donare la morte, Milano, Jaca Book, 2002.

[10] G. C. Pagazzi, La carne, Cinisello Balsamo: San Paolo, 2018, 27-28.

[11] Ibid., 27.