Sul biotestamento serve un accordo ampio. Ma la priorità è aiutare i malati a vivere

di Antonio Sanfrancesco

«Mi chiedo spesso perché tanta fretta per legiferare sulla eutanasia, che è comunque provocare la morte, e si tace del tutto senza neppure un cenno programmatico per contrastare gli abbandoni terapeutici che sono una pratica più che diffusa e che riguarda decine di migliaia di malati? Non sarebbe urgente un sussulto di civiltà per aiutare questi ultimi a vivere?». Monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia Accademia per la Vita, rovescia la questione e rilancia il dibattito sul fine vita adesso che alla Camera dei deputati è iniziata la discussione della legge sul testamento biologico. «Si sta affermando sempre più», spiega, «una cultura individualista che porta ciascuno di noi a pensarsi come un isola, indipendente, da tutto e da tutti: ciascuno è padrone assoluto, ab-solutus, sciolto di sé. Tale cultura, un vero e insidiosissimo veleno, sta distruggendo quel “noi” che è ciascuna persona. E si allarga sempre più quella cultura dello scarto, di cui parla spesso papa Francesco, che porta, appunto, a scartare tutto ciò che si pensa non valga, compreso se stessi. C’è bisogno di una vera e propria una rivoluzione spirituale e culturale. Nessuno è da scartare. La dignità è iscritta radicalmente nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, in qualsiasi condizione si trovi».

Cosa avrebbe detto a dj Fabo se si fosse trovato a tu per tu con lui?

«Non ci sono parole magiche che risolvono le situazioni. C’è bisogno piuttosto di creare rapporti e legami duraturi e appassionati se vogliamo che le parole giungano al cuore e alla mente e aiutino a superare i momenti difficili. Certo, in quel caso, avrei cercato di stare accanto a Fabo con amore, come penso hanno fatto i famigliari. Ma c’è bisogno di un’atmosfera culturale che ci salvi dalla rassegnazione. Nelle parole di Fabo: “Non ce la faccio più” non dovevamo leggere una grande domanda di amore e di senso della vita? Per tanti mesi ha cercato di venirne a capo, ma noi, l’intera società, non abbiamo saputo rispondere a quella domanda, che è rimasta inevasa. C’è bisogno di promuovere una nuova cultura che porti a considerare la vita di ciascuno di noi importante per gli altri. Nessuno deve avere il senso di non valere, o che la sua vita non valga più. Ciascuno deve sentire – ed essere aiutato a sentire – che è davvero importante per gli altri. E la sua vita è un dono unico».

Alla Camera è iniziata la discussione sul testamento biologico. A questo punto serve una legge?

«Penso che sia augurabile una decisone condivisa sulle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento. Va però chiarito che tutto ciò non riguarda affatto l’eutanasia e neppure il suicidio assistito per i quali va detto un deciso no, anche perché sono già proibiti dalle leggi italiane vigenti. Mentre va rispettata la volontà del malato sull’accesso o meno alle terapie, volontà garantita dal dettato costituzionale. E mentre si deve contrastare ogni forma di accanimento terapeutico, va dato largo spazio alle cure palliative per non far soffrire il malato. Tra queste ultime vi è la “sedazione profonda”, come è avvenuta con il cardinale Martini. La chiarezza in questo campo è indispensabile anche per evitare pericolose speculazioni».

È favorevole alle DAT (disposizioni anticipate di trattamento, ndr) per esprimere la volontà in merito alle terapie che una persona intende o non intende accettare nell’eventualità in cui si trovi in condizioni gravi?

«Ripeto, mi auguro che si giunga ad un accordo il più largo possibile. È ormai condiviso che sia riconosciuta la validità del cosiddetto testamento biologico, che rappresenta disposizioni preziose per il medico perché lo aiutano a sciogliere dilemmi terapeutici altrimenti irresolubili, purché siano sottoscritte da persone consapevoli e informate e tali da non vincolare la doverosa autonomia scientifica e deontologica del terapeuta. Tuttavia, quel che a me pare irrinunciabile – ed è un traguardo che mi auguro venga raggiunto in tutti i casi – è quella alleanza terapeutica tra il malato, il medico, i parenti e gli amici che resta la via più alta e insieme più concreta per dare dignità al vivere come al morire».

Nel dibattito suscitato dal caso di dj Fabo alcuni hanno sostenuto che i cattolici sono stati un po’ troppo timidi rispetto a casi analoghi del passato, da Eluana Englaro a Piergiorio Welby. È così?

«No. Semmai, si sceglie in luogo della contrapposizione ideologica la via del dialogo e dell’approfondimento ma senza nessuna rinuncia ai principi. In ogni caso, si fa sentire la mancanza di una riflessione più profonda attorno a questi temi che coinvolga il più ampiamente possibile le diverse parti. Ed è utile tener presente l’avvertimento di quel fine e attento e giurista che è Gustavo Zagrebesky che “rispetto ai temi ultimi siamo sempre penultimi”. Va peraltro evitato un giudizio morale che leghi senza appello peccato e peccatore, come scriveva papa Giovanni. Dobbiamo essere larghi nella compassione senza diminuire la fermezza nei principi».

(da Famiglia Cristiana)